
Il capitale naturale come pilastro dell’economia italiana: il nuovo Rapporto e le sfide per il futuro
di Riccardo Pallotta
Il Sesto Rapporto sullo stato del Capitale Naturale in Italia, approvato dal Comitato per il Capitale Naturale e presentato al Governo, lancia un messaggio netto: la natura non è più soltanto un patrimonio da tutelare per motivi etici o culturali, ma una vera e propria infrastruttura economica e sociale. Senza ecosistemi sani, infatti, l’economia italiana non regge. Un tema che sarà al centro del prossimo convegno “Le imprese protagoniste nella Restoration Economy per la riqualificazione dei territori”, organizzato dal Nature Positive Network, dove esperti, imprese e istituzioni discuteranno di come tradurre in azioni concrete le raccomandazioni del Rapporto. Alla stesura del documento ha contribuito anche la Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, a conferma del legame tra ricerca, società civile e mondo produttivo.
Dalla Costituzione alla contabilità ambientale
Il 2022 ha segnato una svolta storica con la modifica degli articoli 9 e 41 della Costituzione, che hanno introdotto la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi “anche nell’interesse delle future generazioni”. Il nuovo Rapporto sottolinea come questo principio non sia rimasto sulla carta: oggi il capitale naturale viene misurato e valutato non solo dal punto di vista ecologico, ma anche attraverso indicatori economici e contabili, che mostrano con chiarezza quanto la salute della natura condizioni lo sviluppo del Paese.
Natura come rischio sistemico per la finanza
I dati riportati nel Rapporto mettono in evidenza una verità scomoda: la perdita di natura è ormai un rischio finanziario globale. Secondo il World Economic Forum, il collasso degli ecosistemi è il secondo rischio più grave a livello mondiale nei prossimi dieci anni. E non si tratta di scenari lontani. La Banca Centrale Europea ha calcolato che il 72 % delle imprese dell’eurozona dipende direttamente da almeno un servizio ecosistemico e che quasi il 75 % dei prestiti bancari è concesso a realtà che vivono di quelle stesse risorse naturali. Il messaggio è chiaro: trascurare la biodiversità significa mettere a rischio la stabilità dell’intero sistema economico.
Le imprese tra obblighi e opportunità
Il Rapporto evidenzia come il mondo produttivo stia già cambiando pelle. Le direttive europee, a partire dalla Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), impongono a un numero crescente di imprese di rendere conto dell’impatto ambientale delle proprie attività. Parallelamente, la finanza sta riorientando i capitali grazie alla Tassonomia UE e a regole più stringenti sulla trasparenza. Ma la sostenibilità non è solo un vincolo normativo. Molte imprese stanno scoprendo che ridurre il consumo di risorse, prevenire i danni ambientali e rafforzare la resilienza territoriale porta anche benefici economici e competitivi.
Investire nella natura conviene
Uno dei passaggi più forti del Rapporto riguarda i ritorni economici degli investimenti nel ripristino ambientale. La Commissione Europea ha stimato che ogni euro speso per la riqualificazione della natura genera da 4 a 38 euro di benefici economici. In Italia, un piano diffuso di riqualificazione ecologica potrebbe portare a 2,4 miliardi di benefici a fronte di soli 261 milioni di costi, numeri che parlano da soli. Non è solo una questione di profitto, ma di garantire le basi stesse della prosperità futura.
La redditività di lungo periodo, sottolinea il Rapporto, dipende dalla capacità di preservare i servizi che la natura fornisce gratuitamente: aria pulita, acqua potabile, suoli fertili. La perdita di biodiversità e il collasso degli ecosistemi sono tra i principali fattori di rischio globale a dieci anni, secondo il World Economic Forum. La situazione italiana desta preoccupazione, come evidenziato anche dalla Lista Rossa degli Ecosistemi della IUCN, che classifica 58 ecosistemi terrestri italiani a rischio, di cui 7 in condizioni critiche, 22 in pericolo e 29 vulnerabili. Si stima che il 19,6% della superficie nazionale sia sottoposto a diversi livelli di pressione, con il 16,3 % riferito a ecosistemi vulnerabili, il 3 % in pericolo e lo 0,3 % in condizioni critiche.
L’Italia rimane esposta a gravi criticità legate anche al consumo di suolo, considerato un consumo di capitale naturale, che continua a crescere causando la perdita di superfici agricole e naturali. In Europa, il 60-70 % dei terreni non è sano, riducendo la capacità di produzione di cibo e la resilienza dei territori agli effetti dei cambiamenti climatici. A ciò si aggiunge la presenza di circa 2,8 milioni di siti potenzialmente contaminati.
Queste fragilità impongono di rafforzare le politiche di monitoraggio e di sostenere l’attuazione della futura “Soil Health Law” europea, che mira a ottenere un buono stato di salute dei suoli nell’UE entro il 2050. L’Italia è già parzialmente allineata a queste richieste, con il suo sistema di monitoraggio dell’impermeabilizzazione e del consumo di suolo preso come esempio per la metodologia europea. La prospettiva corretta è quella della redditività di lungo periodo, che preserva le condizioni per l’esistenza stessa del tornaconto, nel rispetto della sostenibilità.
Una sfida politica e culturale verso la Restoration Economy
Il Comitato per il Capitale Naturale raccomanda di istituire una cabina di regia nazionale presso la Presidenza del Consiglio per coordinare le politiche settoriali e monitorarne l’efficacia. Ma al di là delle istituzioni, la sfida è culturale: significa ripensare il modo in cui produciamo, consumiamo e investiamo, riconoscendo che il capitale naturale non è una variabile accessoria, bensì la condizione primaria per il benessere collettivo. Il convegno promosso da Nature Positive Network sarà l’occasione per capire come tradurre questi dati in strategie operative. Le imprese, insieme a enti pubblici e società civile, possono diventare protagoniste di una Restoration Economy, in cui la riqualificazione dei territori e la tutela della biodiversità non sono più solo obiettivi ambientali, ma vere e proprie leve di sviluppo economico. Il Rapporto lo dimostra: investire nella natura significa investire nel futuro del Paese.